Si fa un gran parlare di trasformazione digitale, adozione di soluzioni innovative e framework basati su architetture e servizi in cloud. Tutte cose sicuramente utili e auspicabili. Ci giochiamo i prossimi vent’anni più o meno ed anche per questo tanta attenzione mediatica e politica stanno agitando, speriamo positivamente, le acque.
Con gli amici di Fare Digitale ne parliamo da anni di questi argomenti, spesso come dei novelli Don Chisciotte, Sancho Panza e i famosi mulini al vento; e proprio come i protagonisti ci siamo più volte trovati a battagliare contro i giganti della burocrazia italiana, della mancanza di cultura digitale, delle rendite di posizione che verrebbere smantellate dalla trasformazione digitale, che in realtà è una vera e propria trasformazione sociale.
Ma come rendere tutto questo realtà? Da dove partire per passare dalle parole ai fatti?
Alcuni credono, e anche io mi sento parte di questo gruppo, che particolare attenzione vada rivolta alle competenze – hard e soft – necessarie per dare spinta prima e linfa dopo al processo di digitalizzazione.
Viviamo un periodo di profonde trasformazioni in cui la pervasività del digitale determina nuove modalità di vita ad ogni livello. È un cambiamento epocale in cui si delineano nuovi fondamenti culturali: sistemi relazionali basati su network e molteplicità sincronica, lavoro che si configura sempre più come cognitivo, schemi ripetitivi dei processi lavorativi sostituiti dalla continua innovazione. Ed è quindi ovvio e consequenziale che le competenze richieste siano in evoluzione e sempre più pietra angolare del processo di cui stiamo discutendo.
Nella digital society il capitale umano ha un valore strategico e lo avrà sempre di più nei prossimi dieci anni e non solo per tutto ciò che concerne le ICT, ma anche e soprattutto perché è un discorso trasversale a tutti i settori dell’economia. Da un lato quindi dobbiamo fare in modo che i nostri giovani si avvicinino a lauree e diplomi tecnici per aumentare il numero di esperti informatici con competenze avanzate, ma contemporaneamente dobbiamo creare anche una platea, numerosa e competente, di “esperti non tecnici” che devono utilizzare app e piattaforme, comprenderle a fondo per sfruttare tutto il potenziale, dare le linee di indirizzo ai primi che poi dovranno svilupparle e realizzarle.
La bella ricerca Digital @University realizzata del team di Gianluca Arnesano in Fare Digitale va proprio in questa direzione: la prima indagine sulla formazione digitale nel sistema universitario italiano. La formazione, la valorizzazione del capitale umano, la riqualificazione delle competenze sono prioritari e devono essere permanenti per poter essere di supporto effettivo allo sviluppo economico dell’intero paese.
Sembra un paradosso, e forse lo è davvero, ma le competenze digitali oggi in Italia sono una merce rara. In una società che vuole essere proiettata verso la trasformazione digitale si tratta dell’ennesimo ostacolo che ci rende poco competitivi all’interno dello scenario globale.
Trovandoci in questa condizione è necessario allargare lo sguardo e porsi una mission ambiziosa: fare cultura digitale.
Il digitale non è solo codice. Ogni settore ha una dimensione immateriale. Ogni lavoro, ogni professione da qui in avanti (tralasciando il fatto che siamo indietro di qualche lustro) non potrà prescindere dal digitale.
Per dare una forte accelerata sul digitale occorre però investire su chi ha le competenze per abilitarlo. Non solo quindi developers, ma anche professionisti di materie non STEM coinvolti nei processi ICT e nelle iniziative di trasformazione digitale. Servono urbanisti digitali per indicare cosa serve per rendere smart le nostre città e di agrotecnici innovatori per migliorare il rendimento del settore agricolo. Figure a cavallo tra tecnologia e business, esperti di settore e capaci di leggere dati e impostare algoritmi.
Più cultura digitale, ma anche la forte necessità di ripensare il modello di leadership e management in ottica digitale adottando criteri oggettivi, produttivi e sostenibili, sapendo identificare anche i lati oscuri e gli aspetti più problematici legati alla trasformazione digitale.
La sfida è epocale, me ne rendo conto. Non è semplice avviare processi di valorizzazione di capacità e competenze non chiaramente misurabili, o perlomeno non misurabili con i canoni aziendali tradizionali. Togliere i faldoni e eliminare la carta è solo la punta dell’iceberg (attenzione ai venditori di fumo e ai fantomatici guru digitalizzatori). La partita si gioca nel dotare il sistema paese di un capitale umano adeguato per la trasformazione digitale, nello sviluppo di un mindset digitale capace di cogliere tutti i benefici e di evitare gli ostacoli. Tutto ciò però richiede investimenti, visione, coraggio e cambiamenti strutturali e culturali non facili e non realizzabili in tempi veloci, o almeno non così veloci da permetterci di stare al passo con le dinamiche di diffusione globale dell’innovazione tecnologica e dei modelli economici che al digitale sono associati. Il rischio di perdere un’opportunità storica è reale, ma non per questo dobbiamo gettare la spugna ancor prima di scendere in campo.
La sfida è epocale, me ne rendo conto, ma abbiamo l’obbligo di provarci mettendoci tutto l’impegno e la forza che abbiamo in corpo.