O siamo chi vogliamo essere?
Ma andiamo per gradi e facciamo un passo alla volta. Il ragionamento non è dei più semplici ed anche io non è che sia proprio sicuro di dove mi porterà. Quindi la prendo alla larga e come pollicino cerco di seguire il filo.
L’importanza delle giuste premesse.
Quante volte ci siamo sentiti dire che è più importante essere che apparire? Che bisogna studiare, imparare, conoscere? Crescere, nel senso più generale e inclusivo che possa esserci? Sii te stesso! Coltiva il tuo benessere personale! Cerca di trovare i tuoi punti di forza e diventa la persona migliore possibile.
Ce l’hanno detto tante volte, forse troppe, anzi diciamocelo chiaramente ci bombardano con questi messaggi scialbi perché sanno che è questo che vogliamo sentirci dire: si tratta di una parte essenziale della storia che desideriamo raccontare al mondo.
Proprio così, noi – in quanto esseri umani, di sicuro non la specie che sfrutta al meglio le sue potenzialità intellettive – amiamo trasmettere verso l’esterno un’immagine parziale del nostro io, affermando che siamo ciò che siamo, solo perché in realtà è così che vogliamo apparire. Una sorta di cortocircuito ontologico che nessuno in realtà comprende a fondo, ma che fa molto figo a dirlo: cortocircuito O N T O L O G I C O 😃
L’ontologia, una delle branche fondamentali della filosofia, è lo studio dell’essere in quanto tale. E quindi torniamo al principio, noi in realtà chi siamo?
Riavvolgiamo il nastro.
Il succo del discorso è che spesso ci immedesimiamo in ciò che vogliamo essere, anche a discapito di ciò che siamo veramente. Eh sì, perché nel profondo del nostro spirito noi vogliamo essere esattamente il prototipo di persona che gli altri intorno a noi (NDR. la società) amano frequentare, ammirare, stimare. Indipendentemente da come noi siamo veramente. Come se fosse un gioco. Anzi è proprio un gioco. Il termine Gamification vi dice qualcosa?
Robert Cialdini ci parla della riprova sociale come quel fenomeno psicologico per il quale le persone tendono a ritenere maggiormente validi i comportamenti o le scelte che vengono effettuate da un elevato numero di individui. Spiegandoci che così nascono le mode. Oppure indaga un altro tipo di riprova sociale cioè quella che attribuisce grande importanza all’opinione di una voce ritenuta esperta e credibile: se lo dice Lui che è così, allora sicuramente deve essere così. Lui. L’influencer. Chiara Ferragni. Anche io voglio essere come Lei, come faccio a diventarlo?
Ed è proprio qui che casca l’asino, direbbe mia nonna. Qual è la strada che bisogna percorrere affinché la società ci ritenga un esperto e dia alla nostra opinione la giusta credibilità?
In una conferenza del 1963, Concetto di realtà e possibilità del romanzo, il filosofo Hans Blumenberg affermava che la poesia fosse capace di generare una realtà specifica. Nell’Elogio della Follia agli inizi del 1500 Erasmo da Rotterdam si chiedeva: che cosa distingue un re dall’attore che lo interpreta sulla scena? Oppure seguendo il ragionamento del sociologo Pierre Bourdieu, quanto è importante il nostro modo (Capitale Simbolico) di apparire e relazionarci in società?
Ed eccoci giunti ad un incrocio impegnativo sulla strada verso la luce.
Che cos’è il capitale simbolico? Nel capitale simbolico di ognuno di noi ci sono i titoli di studio, il modo di parlare, di vestire, la musica che ascoltiamo, gli attori che amiamo, le persone che conosciamo, la razza del cane che ci accompagna la domenica al parco per impressionare i vicini di casa. Ecco, tutto questo è il capitale simbolico, che poi costituisce la persona che vogliamo essere e per esserlo usiamo soldi veri (il capitale originale, quello di Marx per intenderci). Tipo come quando acquistiamo crediti per avere più vite a Candy Crush.
Diventare un intellettuale, o sembrarlo, può costare quanto tutto l’oro presente nel deposito di Zio Paperone con l’aggiunta di qualche decennio di studio matto e disperatissimo. Insomma un investimento mica da ridere.
Ok, intravediamo l’arrivo
Ma prima dobbiamo chiederci: perché accumuliamo capitale simbolico? Perché ci teniamo così tanto? Semplice! Perché il capitale simbolico serve a ottenere qualcosa dagli altri. Se le altre persone si fidano, ci ritengono competenti, se apprezzano quello che facciamo, è possibile ottenere dei vantaggi sociali e quindi indirettamente anche economici. Il capitale simbolico determina la nostra posizione nella società.
Siamo arrivati alla fine, l’omino sventola la bandiera a scacchi e sul traguardo c’è scritto “Benvenuti nell’era Digitale”.
I social network si nutrono di queste dinamiche. Ogni foto che condividiamo su Facebook vuole urlare al mondo chi desideriamo essere. Cerchiamo di succhiare ogni goccia di ironia dai meme che troviamo in rete così da apparire anche noi simpatici per osmosi. Nei contest dei libri più belli non mettiamo veramente i libri che amiamo di più, ma quelli che agli occhi degli altri ci fanno sembrare ciò che in realtà vorremmo essere.
Vabbé il concetto è chiaro.
In questo mondo liquido e disgregato – così come gli automi di Asimov nel libro Io, Robot – siamo schiavi del nostro “desiderio di essere”, che ci impone di accumulare feticci simbolici per sperare, un domani, di ottenere ciò che in realtà desideriamo più ardentemente al mondo: essere amati!